FREUD E LA GUERRA
CONSIDERAZIONI ATTUALI SULLA GUERRA E SULLA MORTE – SIGMUND FREUD
La guerra del 1915-18 arriva come una profonda rottura di un mondo caratterizzato dalla grande idea di progresso dell’Ottocento positivista; essa ha come conseguenza anche la tragica fine della cosiddetta 'prima globalizzazione' e il ritorno a sentimenti di odio nazionalistico e partigianeria semplicemente inimmaginabili fino all’inizio del secolo etichettati da Freud con il termine “regressione”. Superata la fase iniziale di entusiasmo per la "voce del cannone", man mano che giungono le notizie dal fronte e si impone l'evidenza "dell'inutile strage", si fanno strada tra gli intellettuali il disagio e l'inquietudine non solo per il tempo presente ma anche per il futuro stesso del genere umano; il testo quindi conferma il sentimento di molti che all’indomani della Grande guerra, ricredendosi dei loro entusiasmi militaristi, riconobbero che essa aveva segnato una rottura epocale col passato.
L’iniziale entusiasmo nazionalista che si impadronì dello stesso Freud è destinato a diventare oggetto della sua riflessione dello stesso sui limiti del nostro intelletto. Proprio indagando la reazione degli intellettuali di fronte alla guerra, Freud parlerà dell’intelletto umano come uno “strumento delle nostre pulsioni e dei nostri affetti”
È infatti il regredire collettivo di intere popolazioni ed élite intellettuali a segnare il primo confronto di Freud con la guerra, aprendo dal 1915 in avanti la strada a tutta una serie di scritti su aggressività, ferinità, autodistruttività e pulsione di morte negli esseri umani.
Il disinganno della guerra
“Poi la guerra a cui non volevamo credere è scoppiata , ed è stata per noi una fonte di.. disinganno”
Il disinganno è quel sentimento di delusione derivato dall’improvviso e spiacevole contatto con una realtà diversa da quella immaginata. Per gli intellettuali del periodo questo sentimento di smarrimento ha origini dalla delusione per la distruzione del prezioso patrimonio comune dell’umanità.
Questa delusione è causata anche dall’infrangersi improvviso di una certa speranza, ovvero che “dalle grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo”, a cui sono dovuti “i progressi tecnici per il dominio della natura nonché i valori della cultura, dell’arte e della scienza … almeno ci aspettavamo che giungessero a risolvere per altre vie i loro malintesi e i loro contrasti d’interesse” (OSF 8, p. 124). Due sono i fattori che per Freud determinano l’improvvisa delusione: che gli Stati che ci rappresentano non hanno nulla di morale nei loro comportamenti, e che gli individui sono tornati a una brutalità reciproca che si riteneva impensabile in una civiltà progredita (OSF 8, p. 128). Delusione e spaesamento, dunque, perché né negli uni né negli altri ci riesce ormai di riconoscerci.
Lo Stato ipocrita e amorale
Freud nelle “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte” afferma che lo Stato in guerra ritiene lecite violenze e ingiustizie che disonorerebbero il singolo privato: noi, però, che siamo stati educati al rifiuto della violenza, ci ostiniamo a restare attaccati alla convinzione che la guerra non può essere inevitabile e che tutte le ingiustizie e i soprusi e le violenze ad essa inevitabilmente legati sono da respingere con orrore e mai devono trovare giustificazione.
Freud non esitò a mostrare l’ipocrisia degli stati che hanno interdetto al singolo cittadino l’uso della violenza non per sopprimerla, ma per monopolizzarla «come il sale e i tabacchi». Quegli stessi stati, che condannano al loro interno ingiustizie e violenze, le dichiarano lecite in guerra, dove gli uomini si sbarazzano della propria moralità così faticosamente acquisita e soddisfano quelle pulsioni che la civiltà tiene a bada.
“Esige una buona condotta senza preoccuparsi delle tendenze su cui si fonda; in questo modo ha abituato un gran numero di persone ad ubbidire ”
Ubbidire e conformarsi alle condizioni della vita civile senza che la natura degli uomini partecipi a questa obbedienza.
La brutalità dell’uomo civilizzato
“In realtà le cattive tendenze non scompaiono, non sono mai profondamente sradicate”
L’illusione che il processo di civilizzazione si sia sedimentato nell'animo e nel comportamento degli uomini: al contrario, è sufficiente che lo stato consenta e obblighi i cittadini all'uso legittimo della violenza affinché riemergano le più violente pulsioni aggressive.
INFATTI Proprio gli stati tecnicamente progrediti e con grandi tradizioni giuridiche, culturali, artistiche e scientifiche avevano finito per affrontarsi l’un l’altro «con odio e orrore», invece di risolvere per altre vie malintesi e contrasti d’interesse.
Ma proprio qui interviene il contributo intellettuale dell’indagine psicoanalitica. Essa ci ha insegnato che 'moti pulsionali originari', né buoni né cattivi in verità, non sono mai estirpati negli esseri umani. Tali moti possono compiere un lavoro trasformativo – inibizione, deviazione, repressione, sublimazione – il cui esito finale rimane però fragile ed esposto a improvvise regressioni, proprio per la natura plastica (OSF 8, p. 133) della vita psichica umana. La regressione, d’altronde, è la caratteristica che quotidianamente si compie nella vita onirica dove, come nella guerra, la psiche dismette ogni giorno i suoi abiti civili per esprimere indisturbata il suo ritorno a uno stadio più antico della vita psichica. Gettato questo ponte tra la follia della guerra e la micro-follia quotidiana della vita onirica, abbiamo quantomeno la possibilità di comprendere in via profonda la guerra, come fenomeno purtroppo niente affatto estraneo alla nostra psiche.
Lo studioso giunge ad affermare che, nonostante l’influsso dell’educazione e dell’ambiente civile, il male non è stato estirpato dall’uomo. L’indagine psicologica, o meglio psicoanalitica, indica che la più profonda essenza degli uomini è costituita da moti pulsionali, che mirano al soddisfacimento di certi bisogni originari: tali moti non sono né buoni né cattivi. Molti moti pulsionali si presentano in coppie di opposti; nella stessa persona, quindi, possono esistere aspetti contrastanti: ogni uomo, così, sarà per certi aspetti buono e per altri cattivo.
La trasformazione pulsionale, su cui poggia la nostra attitudine alla civiltà, in seguito all’influsso di particolari circostanze, può subire un processo involutivo, transitorio o duraturo: la guerra è, appunto, una forza in grado di produrre involuzione. Non si può, dunque, disconoscere un’attitudine alla civiltà a tutti coloro che, in una situazione bellica, non si comportano civilmente: si può pensare –sostiene Freud- che in tempi più tranquilli le stesse persone, di cui abbiamo constatato una sorta di imbarbarimento, torneranno ad ingentilirsi. L’esperienza psicoanalitica permette di constatare come sia possibile che gli uomini più acuti all’improvviso si comportino irrazionalmente, quando la capacità di capire, che da loro si pretende, incontra una resistenza da parte del sentimento; una volta, però, che tale resistenza venga superata, essi riacquistano pienamente quella capacità di intendere, che avevano smarrito.
Date queste premesse, si può, allora, mettere a fuoco meglio quello stato di obnubilamento delle facoltà intellettuali provocato dalla guerra spesso proprio in quegli uomini, che noi giudicavamo i migliori: si tratta semplicemente di una conseguenza dell’eccitazione emotiva, che la guerra stessa ha provocato, destinata a sparire al termine del conflitto.
Riflessione sull’intelletto
Analizzando questi comportamenti, Freud vi scorge la prova che nelle vicende umane l’intelligenza non è una forza autonoma, ma dipende - egli sostiene - dalla «vivacità del sentimento». Per lui «gli argomenti logici sono privi di efficacia contro gli interessi effettivi». La civiltà si mostra, perciò, in tutta la sua fragilità: essa ha solo represso ma non eliminato una «naturale disposizione pulsionale» dei suoi membri all’aggressività e alla violenza che troppo facilmente viene attribuita ai soli popoli meno “civilizzati”. La barbarie è invece sempre in agguato anche nella civile Europa.
Conclusione
Quanto alle ragioni per le quali popoli e nazioni possono disprezzarsi e odiarsi, Freud dichiara di non saper cosa dire: “è un vero mistero… è come se, riunendo una moltitudine, sia pure costituita da milioni di uomini, per ciò stesso tutte le acquisizioni morali dei singoli dovessero annullarsi, lasciando sussistere soltanto gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e più rozzi”. Freud ipotizza – forse spera – che un’ulteriore evoluzione possa, almeno in parte, mutare quello che egli stesso definisce uno stato di cose “deplorevole”; tiene viva, comunque, in sé la speranza che una trasformazione in meglio dei rapporti umani si possa realizzare grazie a “un po’ più di franchezza e sincerità reciproca”.
La guerra è un avvenimento inaccettabile; Se la civiltà implica il progresso, la guerra è regressione. Freud ritiene comunque indispensabili i processi d’incivilimento, anche se si tratta di un «incivilimento ipocrita». Non resta che riconoscere questo «disagio della civiltà» e auspicare «un po’ più di franchezza e sincerità reciproca, nei rapporti degli uomini fra loro, e specialmente nei rapporti fra governanti e governati» in vista di una incerta «ulteriore evoluzione progressiva».
Considerazioni sulla morte
Il perturbamento riguardante il nostro tradizionale modo di porci di fronte alla morte è tra gli elementi che fanno sì che oggi ci sentiamo così estranei in un mondo che una volta appariva talmente bello e familiare. E’ facile sostenere che la morte è l’esito necessario di ogni esistenza, che è un fatto naturale, innegabile ed inevitabile, ma nonostante ciò abbiamo mostrato una chiara tendenza a metter da parte la morte, ad eliminarla dalla vita. Preferiamo infatti sottolineare il motivo fortuito di essa: l’incidente, la malattia, l’infezione, l’età avanzata – tradendo così la nostra preoccupazione di ridimensionare la necessità della morte fino a farne un fatto accidentale; è comprensibile quindi che noi cerchiamo nel mondo della finzione, nella letteratura, nel teatro, un sostituto a tutto ciò cui rinunciamo nella vita.
L’uomo delle origini si è posto di fronte alla morte in maniera estremamente singolare e contraddittorio. Da un lato, egli prendeva la morte sul serio, riconoscendola come fine della vita, e in tal senso se ne serviva; d’altro lato, la negava, riducendola a nulla. La morte dell’altro gli appariva del tutto opportuna: per lui significava l’annientamento dell’individuo odiato, sicché non conobbe scrupolo alcuno nel provocarla. Egli era certamente più crudele e malvagio di altri animali: uccideva volentieri e come fosse cosa assolutamente ovvia. I filosofi hanno sostenuto che l’enigma intellettuale a cui l’uomo primitivo si trovò di fronte nell’immagine della morte lo avrebbe costretto alla riflessione, diventando il punto di avvio di ogni speculazione. Ma in realtà a dare il la alla ricerca umana non è stato l’enigma intellettuale bensì il conflitto emotivo provocato dalla morte di persone amate, nel contempo sentite come estranee e odiate.
Tutta quanta la psicologia ha preso le mosse da questo conflitto di sentimenti. L’uomo non riuscì più a tenere la morte lontana da sé, da quando ne ebbe gustato l’amaro sapore nel dolore per la scomparsa di una persona amata, e tuttavia si ostinò a non darle ancora alcun riconoscimento, non riuscendo a raffigurarsi morto. E così si adattò a un compromesso: ammise l’eventualità della propria morte, ma non volle riconoscere quel significato di annichilimento della vita, che pure nel caso della morte del nemico non aveva avuto motivo alcuno di rifiutare. La persistenza del ricordo del defunto fondò la supposizione di altre forme di esistenza, gli suggerì l’idea di una vita che continua dopo la morte apparente: queste esistenze ulteriori all’inizio non erano che appendici di quella cui la monte aveva posto fine. Fu solo più tardi che le religioni giunsero a proclamare questa esistenza ulteriore la più preziosa, quella pienamente valida, ridimensionando il significato della vita, che la morte conclude, a mera preparazione.
Lasciamo ora l’uomo primitivo e chiediamoci come si atteggia il nostro inconscio nei confronti del problema della morte. Il nostro inconscio non crede alla propria morte, si comporta come se fosse immortale. Ciò che noi chiamiamo inconscio non conosce alcunché di negativo, alcuna negazione e perciò nemmeno conosce la propria morte: alla credenza nella morte, dunque, non corrisponde in noi alcunché di pulsionale. D’altra parte, se la morte riguarda estranei o nemici, non abbiamo difficoltà a riconoscerla e siamo pronti ad infliggergliela senza esitazione alcuna, come faceva l’uomo primordiale. Il nostro inconscio non mette in atto l’uccisione, ma semplicemente la immagina e la desidera. Nelle dinamiche del nostro inconscio noi eliminiamo tutti coloro che ci sono d’intralcio, quelli che ci hanno offeso o danneggiato.
Per noi, queste persone care rappresentano, da un lato, un intimo possesso - appartengono organicamente al nostro Io; d’altro lato però, ci appaiono in parte estranee o addirittura nemiche. Le più tenere ed intime relazioni d’amore portano con sé, ad eccezione di rarissime situazioni, anche una certa dose di ostilità che può stimolare l‘inconscio desiderio di morte.
È facile constatare quanto incisiva sia su questa scissione l’azione della guerra, che ci libera dalle tarde concrezioni della civiltà e lascia riapparire l’uomo primitivo.
Ma non è possibile porre fine alle guerre finché le condizioni di vita dei popoli saranno così diverse, e finché così violenta sarà l’avversione che li divide si verificheranno necessariamente delle guerre. E allora s’impone la domanda: non dovremmo forse cedere a questa realtà ed adattarci alla guerra?
Tutto ciò presenta quantomeno il vantaggio di rispettare maggiormente l’esigenza di veridicità e di renderci di nuovo più sopportabile l’esistenza. Ricordiamo l’antica massima: Si vis pacem, para bellum - se vuoi conservare la pace, prepara la guerra che è ormai tempo di modificare così: Si vis vitam, para mortem - se vuoi sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte.
Da una simile immersione nella caducità di tutto quanto è bello e perfetto possono prodursi, lo sappiamo bene, due diversi moti psichici: l’uno conduce al doloroso disgusto del mondo, l’altro alla ribellione contro questa realtà; solo che questa esigenza di eternità è con troppa evidenza un prodotto dei nostri desideri, perché possa pretendere a un qualche valore di realtà.
II pensiero della caducità anticipava il sapore del lutto che avrebbero provato per la sua fine; e, poiché la psiche rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi sentivano come il pensiero della caducità della bellezza, inquinasse inevitabilmente il loro godimento.
Per lo psicologo, invece, il lutto è un grande enigma: ciascuno di noi possiede, in una data misura, quella capacità d’amare a cui abbiamo dato il nome di libido, e che nelle prime fasi dello sviluppo è rivolta verso il nostro proprio Io. In seguito, ma comunque molto presto, essa si distoglie dall’Io e si rivolge agli oggetti che così vengono in certo qual modo accolti nel nostro Io. Allorché gli oggetti vengano distrutti o persi, la nostra capacità di amare è di nuovo libera: tuttavia non riusciamo a comprendere perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba rappresentare un evento così doloroso né sappiamo per ora formulare alcuna ipotesi attendibile al riguardo. Ci limitiamo dunque a constatare che la libido si aggrappa ai propri oggetti, e che, anche quando gli oggetti sostitutivi sono a disposizione, non intende rinunciare a quelli che ha perduto. Questo, dunque, è il lutto.
Non appena il lutto sarà superato, ci renderemo conto che la grande considerazione che avevamo per i beni della civiltà non è stata affatto intaccata dall’esperienza della loro precarietà. E allora ricostruiremo tutto ciò che la guerra ha distrutto, magari su basi ancora più stabili e durature di prima.
PERCHE' LA GUERRA?
Carteggio Albert Einstein – Sigmund Freud (1932)
La proposta di scambio epistemologico fu mossa dalla Società delle nazioni e dall'Istituto Internazionale per la cooperazione intellettuale al fine di favorire dibattiti e scambi di opinione su temi d'attualità tra le più importanti personalità dell'epoca in ambito scientifico, filosofico, letterario, artistico. Il fisico Albert Einstein decise di contattare Sigmund Freud, e intrattenne con il filosofo una corrispondenza legata al tema della guerra, che venne pubblicata l'anno successivo a Parigi con il titolo “Perchè la guerra?”.
EINSTEIN, 30 luglio 1932
Esiste un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? Il fisico si propone di interrogare Freud per quanto riguarda l'animo e l'istinto umano in relazione al problema, argomento a cui sia le personalità scientifiche, oltre a quelle governative, devono cercare una soluzione. Per risolvere l'aspetto esteriore e organizzativo basterebbe creare un'autorità legislativa e giudiziaria che componga i conflitti tra stati, di cui gli stati devono rispettare decreti e imposizioni, vale a dire rinunciare a parte della propria libertà di azione
Primo assioma posto da Einstein: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza. L' INSUCCESSO (ottenuto nell'ultimo decennio) è dato dalla SETE DI POTERE della classe dominante, che non vuole rinunciare alla propria sovranità, e degli industriali, che vedono nella guerra possibilità di arricchirsi economicamente. Costoro riescono a convincere il popolo attraverso il controllo dell'istruzione, della stampa, delle organizzazioni religiose (massa=strumento politico).
Com'è allora che la massa si lascia convincere così facilmente? Deve necessariamente essere a causa di un SENTIMENTO DI ODIO E DISTRUZIONE interno dell'animo umano, passione che emerge solo in situazioni particolari.
Vero nocciolo della questione: esiste allora la possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Il fisico si riferisce sia alle masse incolte sia agli intellettuali tanto facilmente coinvolti nel propagandare la guerra, e parla in generale dei conflitti che nascono non solo tra stati ma anche all'interno di uno stato stesso.
Chiede infine a Freud di esporre il problema della pace mondiale attraverso le sue recenti scoperte, così da partecipare nella ricerca di nuove vie d'azione.
FREUD, Settembre 1932
Il filosofo è inizialmente sorpreso dalla scelta di argomento di Einstein, e ancora di più dal rendersi conto di come effettivamente questa sia una questione che riguarda tutti, scienziati come filosofi come politici.
Inizia la sua risposta tracciando il rapporto nella storia tra diritto e forza (violenza)→legge del più forte, da sempre regolatrice dei conflitti tra uomini, in grado di determinare l'individuo dominante che o uccide o diventa padrone del vinto. Il diritto nasce dall'unione di molti (deboli), uniti per contrastare la predominazione di uno: unione=potenza della comunità, si esplica sempre attraverso la violenza. La comunità, che si deve mantenere una volta eliminato il singolo potente, si basa sui legami emotivi che tengono unito il gruppo, ed è amministrata da leggi. Ma anche all'interno di una comunità la pace è solo teorica (singoli che tentano di tornare allo stato iniziale di violenza, tentativi comunitari di ottenere diritti universali) e si finisce con il risolvere i conflitti in modo violento. Si sono infatti verificati conflitti continui nel corso della storia tra le popolazioni più diverse, che non hanno comunque mai dato vita a un unico impero pacifico.
Una PREVENZIONE SICURA DALLA GUERRA è possibile creando un'autorità centrale al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interesse, e assicurandole il potere che le spetta (cosa che non si è verificata con la Società delle Nazioni: non ha potere proprio e nessuno gliel'ha concesso).
Freud passa poi ad analizzare le PULSIONI UMANE, che possono essere solo di due tipi: Eros (che tende a conservare e a unire) e Thanatos (tende a distruggere e a uccidere). Esse sono parimente indispensabili e agiscono vincolate l'una all'altra, influenzandosi a vicenda. In questo modo, la passione scatenata dalla guerra non va a risvegliare solo gli impulsi distruttivi ma anche quelli erotici e ideali, e questo legame rende più facile il loro soddisfacimento. In particolare, thanatos è pulsione di morte che viene sfogata sia verso oggetti esterni, in modo distruttivo, sia all'interno dell'uomo, comportando una serie di patologie; è dunque impossibile poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Si può solo cercare di deviare l'aggressività umana al punto che non debba trovare espressione nella guerra.
La LOTTA ALLA GUERRA si può fare, indirettamente e lentamente:
• attraverso l'eros=legami emotivi contro la guerra: relazioni d'amore o identificazione (solidarietà identificative tra uomini, su cui si basa l'assetto della società)
• formando persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia
Ma PERCHE' CI INDIGNIAMO CONTRO LA GUERRA e non la prendiamo come una delle tante calamità della vita? Essa infatti è un processo naturale, quasi anche biologico. La ragione principale è che non possiamo fare a meno di farlo: siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo, per ragioni organiche; ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento con argomentazioni. Il percorso secolare di “incivilimento” (civilizzazione) della società umana ha portato al rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e all’interiorizzazione dell’aggressività. La guerra va contro l'atteggiamento psichico proposto dal processo civile ergo dobbiamo ribellarci contro essa, rifiutarla intellettualmente e affettivamente.
Forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.
CONSIDERAZIONI ATTUALI SULLA GUERRA E SULLA MORTE – SIGMUND FREUD
La guerra del 1915-18 arriva come una profonda rottura di un mondo caratterizzato dalla grande idea di progresso dell’Ottocento positivista; essa ha come conseguenza anche la tragica fine della cosiddetta 'prima globalizzazione' e il ritorno a sentimenti di odio nazionalistico e partigianeria semplicemente inimmaginabili fino all’inizio del secolo etichettati da Freud con il termine “regressione”. Superata la fase iniziale di entusiasmo per la "voce del cannone", man mano che giungono le notizie dal fronte e si impone l'evidenza "dell'inutile strage", si fanno strada tra gli intellettuali il disagio e l'inquietudine non solo per il tempo presente ma anche per il futuro stesso del genere umano; il testo quindi conferma il sentimento di molti che all’indomani della Grande guerra, ricredendosi dei loro entusiasmi militaristi, riconobbero che essa aveva segnato una rottura epocale col passato.
L’iniziale entusiasmo nazionalista che si impadronì dello stesso Freud è destinato a diventare oggetto della sua riflessione dello stesso sui limiti del nostro intelletto. Proprio indagando la reazione degli intellettuali di fronte alla guerra, Freud parlerà dell’intelletto umano come uno “strumento delle nostre pulsioni e dei nostri affetti”
È infatti il regredire collettivo di intere popolazioni ed élite intellettuali a segnare il primo confronto di Freud con la guerra, aprendo dal 1915 in avanti la strada a tutta una serie di scritti su aggressività, ferinità, autodistruttività e pulsione di morte negli esseri umani.
Il disinganno della guerra
“Poi la guerra a cui non volevamo credere è scoppiata , ed è stata per noi una fonte di.. disinganno”
Il disinganno è quel sentimento di delusione derivato dall’improvviso e spiacevole contatto con una realtà diversa da quella immaginata. Per gli intellettuali del periodo questo sentimento di smarrimento ha origini dalla delusione per la distruzione del prezioso patrimonio comune dell’umanità.
Questa delusione è causata anche dall’infrangersi improvviso di una certa speranza, ovvero che “dalle grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo”, a cui sono dovuti “i progressi tecnici per il dominio della natura nonché i valori della cultura, dell’arte e della scienza … almeno ci aspettavamo che giungessero a risolvere per altre vie i loro malintesi e i loro contrasti d’interesse” (OSF 8, p. 124). Due sono i fattori che per Freud determinano l’improvvisa delusione: che gli Stati che ci rappresentano non hanno nulla di morale nei loro comportamenti, e che gli individui sono tornati a una brutalità reciproca che si riteneva impensabile in una civiltà progredita (OSF 8, p. 128). Delusione e spaesamento, dunque, perché né negli uni né negli altri ci riesce ormai di riconoscerci.
Lo Stato ipocrita e amorale
Freud nelle “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte” afferma che lo Stato in guerra ritiene lecite violenze e ingiustizie che disonorerebbero il singolo privato: noi, però, che siamo stati educati al rifiuto della violenza, ci ostiniamo a restare attaccati alla convinzione che la guerra non può essere inevitabile e che tutte le ingiustizie e i soprusi e le violenze ad essa inevitabilmente legati sono da respingere con orrore e mai devono trovare giustificazione.
Freud non esitò a mostrare l’ipocrisia degli stati che hanno interdetto al singolo cittadino l’uso della violenza non per sopprimerla, ma per monopolizzarla «come il sale e i tabacchi». Quegli stessi stati, che condannano al loro interno ingiustizie e violenze, le dichiarano lecite in guerra, dove gli uomini si sbarazzano della propria moralità così faticosamente acquisita e soddisfano quelle pulsioni che la civiltà tiene a bada.
“Esige una buona condotta senza preoccuparsi delle tendenze su cui si fonda; in questo modo ha abituato un gran numero di persone ad ubbidire ”
Ubbidire e conformarsi alle condizioni della vita civile senza che la natura degli uomini partecipi a questa obbedienza.
La brutalità dell’uomo civilizzato
“In realtà le cattive tendenze non scompaiono, non sono mai profondamente sradicate”
L’illusione che il processo di civilizzazione si sia sedimentato nell'animo e nel comportamento degli uomini: al contrario, è sufficiente che lo stato consenta e obblighi i cittadini all'uso legittimo della violenza affinché riemergano le più violente pulsioni aggressive.
INFATTI Proprio gli stati tecnicamente progrediti e con grandi tradizioni giuridiche, culturali, artistiche e scientifiche avevano finito per affrontarsi l’un l’altro «con odio e orrore», invece di risolvere per altre vie malintesi e contrasti d’interesse.
Ma proprio qui interviene il contributo intellettuale dell’indagine psicoanalitica. Essa ci ha insegnato che 'moti pulsionali originari', né buoni né cattivi in verità, non sono mai estirpati negli esseri umani. Tali moti possono compiere un lavoro trasformativo – inibizione, deviazione, repressione, sublimazione – il cui esito finale rimane però fragile ed esposto a improvvise regressioni, proprio per la natura plastica (OSF 8, p. 133) della vita psichica umana. La regressione, d’altronde, è la caratteristica che quotidianamente si compie nella vita onirica dove, come nella guerra, la psiche dismette ogni giorno i suoi abiti civili per esprimere indisturbata il suo ritorno a uno stadio più antico della vita psichica. Gettato questo ponte tra la follia della guerra e la micro-follia quotidiana della vita onirica, abbiamo quantomeno la possibilità di comprendere in via profonda la guerra, come fenomeno purtroppo niente affatto estraneo alla nostra psiche.
Lo studioso giunge ad affermare che, nonostante l’influsso dell’educazione e dell’ambiente civile, il male non è stato estirpato dall’uomo. L’indagine psicologica, o meglio psicoanalitica, indica che la più profonda essenza degli uomini è costituita da moti pulsionali, che mirano al soddisfacimento di certi bisogni originari: tali moti non sono né buoni né cattivi. Molti moti pulsionali si presentano in coppie di opposti; nella stessa persona, quindi, possono esistere aspetti contrastanti: ogni uomo, così, sarà per certi aspetti buono e per altri cattivo.
La trasformazione pulsionale, su cui poggia la nostra attitudine alla civiltà, in seguito all’influsso di particolari circostanze, può subire un processo involutivo, transitorio o duraturo: la guerra è, appunto, una forza in grado di produrre involuzione. Non si può, dunque, disconoscere un’attitudine alla civiltà a tutti coloro che, in una situazione bellica, non si comportano civilmente: si può pensare –sostiene Freud- che in tempi più tranquilli le stesse persone, di cui abbiamo constatato una sorta di imbarbarimento, torneranno ad ingentilirsi. L’esperienza psicoanalitica permette di constatare come sia possibile che gli uomini più acuti all’improvviso si comportino irrazionalmente, quando la capacità di capire, che da loro si pretende, incontra una resistenza da parte del sentimento; una volta, però, che tale resistenza venga superata, essi riacquistano pienamente quella capacità di intendere, che avevano smarrito.
Date queste premesse, si può, allora, mettere a fuoco meglio quello stato di obnubilamento delle facoltà intellettuali provocato dalla guerra spesso proprio in quegli uomini, che noi giudicavamo i migliori: si tratta semplicemente di una conseguenza dell’eccitazione emotiva, che la guerra stessa ha provocato, destinata a sparire al termine del conflitto.
Riflessione sull’intelletto
Analizzando questi comportamenti, Freud vi scorge la prova che nelle vicende umane l’intelligenza non è una forza autonoma, ma dipende - egli sostiene - dalla «vivacità del sentimento». Per lui «gli argomenti logici sono privi di efficacia contro gli interessi effettivi». La civiltà si mostra, perciò, in tutta la sua fragilità: essa ha solo represso ma non eliminato una «naturale disposizione pulsionale» dei suoi membri all’aggressività e alla violenza che troppo facilmente viene attribuita ai soli popoli meno “civilizzati”. La barbarie è invece sempre in agguato anche nella civile Europa.
Conclusione
Quanto alle ragioni per le quali popoli e nazioni possono disprezzarsi e odiarsi, Freud dichiara di non saper cosa dire: “è un vero mistero… è come se, riunendo una moltitudine, sia pure costituita da milioni di uomini, per ciò stesso tutte le acquisizioni morali dei singoli dovessero annullarsi, lasciando sussistere soltanto gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e più rozzi”. Freud ipotizza – forse spera – che un’ulteriore evoluzione possa, almeno in parte, mutare quello che egli stesso definisce uno stato di cose “deplorevole”; tiene viva, comunque, in sé la speranza che una trasformazione in meglio dei rapporti umani si possa realizzare grazie a “un po’ più di franchezza e sincerità reciproca”.
La guerra è un avvenimento inaccettabile; Se la civiltà implica il progresso, la guerra è regressione. Freud ritiene comunque indispensabili i processi d’incivilimento, anche se si tratta di un «incivilimento ipocrita». Non resta che riconoscere questo «disagio della civiltà» e auspicare «un po’ più di franchezza e sincerità reciproca, nei rapporti degli uomini fra loro, e specialmente nei rapporti fra governanti e governati» in vista di una incerta «ulteriore evoluzione progressiva».
Considerazioni sulla morte
Il perturbamento riguardante il nostro tradizionale modo di porci di fronte alla morte è tra gli elementi che fanno sì che oggi ci sentiamo così estranei in un mondo che una volta appariva talmente bello e familiare. E’ facile sostenere che la morte è l’esito necessario di ogni esistenza, che è un fatto naturale, innegabile ed inevitabile, ma nonostante ciò abbiamo mostrato una chiara tendenza a metter da parte la morte, ad eliminarla dalla vita. Preferiamo infatti sottolineare il motivo fortuito di essa: l’incidente, la malattia, l’infezione, l’età avanzata – tradendo così la nostra preoccupazione di ridimensionare la necessità della morte fino a farne un fatto accidentale; è comprensibile quindi che noi cerchiamo nel mondo della finzione, nella letteratura, nel teatro, un sostituto a tutto ciò cui rinunciamo nella vita.
L’uomo delle origini si è posto di fronte alla morte in maniera estremamente singolare e contraddittorio. Da un lato, egli prendeva la morte sul serio, riconoscendola come fine della vita, e in tal senso se ne serviva; d’altro lato, la negava, riducendola a nulla. La morte dell’altro gli appariva del tutto opportuna: per lui significava l’annientamento dell’individuo odiato, sicché non conobbe scrupolo alcuno nel provocarla. Egli era certamente più crudele e malvagio di altri animali: uccideva volentieri e come fosse cosa assolutamente ovvia. I filosofi hanno sostenuto che l’enigma intellettuale a cui l’uomo primitivo si trovò di fronte nell’immagine della morte lo avrebbe costretto alla riflessione, diventando il punto di avvio di ogni speculazione. Ma in realtà a dare il la alla ricerca umana non è stato l’enigma intellettuale bensì il conflitto emotivo provocato dalla morte di persone amate, nel contempo sentite come estranee e odiate.
Tutta quanta la psicologia ha preso le mosse da questo conflitto di sentimenti. L’uomo non riuscì più a tenere la morte lontana da sé, da quando ne ebbe gustato l’amaro sapore nel dolore per la scomparsa di una persona amata, e tuttavia si ostinò a non darle ancora alcun riconoscimento, non riuscendo a raffigurarsi morto. E così si adattò a un compromesso: ammise l’eventualità della propria morte, ma non volle riconoscere quel significato di annichilimento della vita, che pure nel caso della morte del nemico non aveva avuto motivo alcuno di rifiutare. La persistenza del ricordo del defunto fondò la supposizione di altre forme di esistenza, gli suggerì l’idea di una vita che continua dopo la morte apparente: queste esistenze ulteriori all’inizio non erano che appendici di quella cui la monte aveva posto fine. Fu solo più tardi che le religioni giunsero a proclamare questa esistenza ulteriore la più preziosa, quella pienamente valida, ridimensionando il significato della vita, che la morte conclude, a mera preparazione.
Lasciamo ora l’uomo primitivo e chiediamoci come si atteggia il nostro inconscio nei confronti del problema della morte. Il nostro inconscio non crede alla propria morte, si comporta come se fosse immortale. Ciò che noi chiamiamo inconscio non conosce alcunché di negativo, alcuna negazione e perciò nemmeno conosce la propria morte: alla credenza nella morte, dunque, non corrisponde in noi alcunché di pulsionale. D’altra parte, se la morte riguarda estranei o nemici, non abbiamo difficoltà a riconoscerla e siamo pronti ad infliggergliela senza esitazione alcuna, come faceva l’uomo primordiale. Il nostro inconscio non mette in atto l’uccisione, ma semplicemente la immagina e la desidera. Nelle dinamiche del nostro inconscio noi eliminiamo tutti coloro che ci sono d’intralcio, quelli che ci hanno offeso o danneggiato.
Per noi, queste persone care rappresentano, da un lato, un intimo possesso - appartengono organicamente al nostro Io; d’altro lato però, ci appaiono in parte estranee o addirittura nemiche. Le più tenere ed intime relazioni d’amore portano con sé, ad eccezione di rarissime situazioni, anche una certa dose di ostilità che può stimolare l‘inconscio desiderio di morte.
È facile constatare quanto incisiva sia su questa scissione l’azione della guerra, che ci libera dalle tarde concrezioni della civiltà e lascia riapparire l’uomo primitivo.
Ma non è possibile porre fine alle guerre finché le condizioni di vita dei popoli saranno così diverse, e finché così violenta sarà l’avversione che li divide si verificheranno necessariamente delle guerre. E allora s’impone la domanda: non dovremmo forse cedere a questa realtà ed adattarci alla guerra?
Tutto ciò presenta quantomeno il vantaggio di rispettare maggiormente l’esigenza di veridicità e di renderci di nuovo più sopportabile l’esistenza. Ricordiamo l’antica massima: Si vis pacem, para bellum - se vuoi conservare la pace, prepara la guerra che è ormai tempo di modificare così: Si vis vitam, para mortem - se vuoi sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte.
Da una simile immersione nella caducità di tutto quanto è bello e perfetto possono prodursi, lo sappiamo bene, due diversi moti psichici: l’uno conduce al doloroso disgusto del mondo, l’altro alla ribellione contro questa realtà; solo che questa esigenza di eternità è con troppa evidenza un prodotto dei nostri desideri, perché possa pretendere a un qualche valore di realtà.
II pensiero della caducità anticipava il sapore del lutto che avrebbero provato per la sua fine; e, poiché la psiche rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi sentivano come il pensiero della caducità della bellezza, inquinasse inevitabilmente il loro godimento.
Per lo psicologo, invece, il lutto è un grande enigma: ciascuno di noi possiede, in una data misura, quella capacità d’amare a cui abbiamo dato il nome di libido, e che nelle prime fasi dello sviluppo è rivolta verso il nostro proprio Io. In seguito, ma comunque molto presto, essa si distoglie dall’Io e si rivolge agli oggetti che così vengono in certo qual modo accolti nel nostro Io. Allorché gli oggetti vengano distrutti o persi, la nostra capacità di amare è di nuovo libera: tuttavia non riusciamo a comprendere perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba rappresentare un evento così doloroso né sappiamo per ora formulare alcuna ipotesi attendibile al riguardo. Ci limitiamo dunque a constatare che la libido si aggrappa ai propri oggetti, e che, anche quando gli oggetti sostitutivi sono a disposizione, non intende rinunciare a quelli che ha perduto. Questo, dunque, è il lutto.
Non appena il lutto sarà superato, ci renderemo conto che la grande considerazione che avevamo per i beni della civiltà non è stata affatto intaccata dall’esperienza della loro precarietà. E allora ricostruiremo tutto ciò che la guerra ha distrutto, magari su basi ancora più stabili e durature di prima.
PERCHE' LA GUERRA?
Carteggio Albert Einstein – Sigmund Freud (1932)
La proposta di scambio epistemologico fu mossa dalla Società delle nazioni e dall'Istituto Internazionale per la cooperazione intellettuale al fine di favorire dibattiti e scambi di opinione su temi d'attualità tra le più importanti personalità dell'epoca in ambito scientifico, filosofico, letterario, artistico. Il fisico Albert Einstein decise di contattare Sigmund Freud, e intrattenne con il filosofo una corrispondenza legata al tema della guerra, che venne pubblicata l'anno successivo a Parigi con il titolo “Perchè la guerra?”.
EINSTEIN, 30 luglio 1932
Esiste un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? Il fisico si propone di interrogare Freud per quanto riguarda l'animo e l'istinto umano in relazione al problema, argomento a cui sia le personalità scientifiche, oltre a quelle governative, devono cercare una soluzione. Per risolvere l'aspetto esteriore e organizzativo basterebbe creare un'autorità legislativa e giudiziaria che componga i conflitti tra stati, di cui gli stati devono rispettare decreti e imposizioni, vale a dire rinunciare a parte della propria libertà di azione
Primo assioma posto da Einstein: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza. L' INSUCCESSO (ottenuto nell'ultimo decennio) è dato dalla SETE DI POTERE della classe dominante, che non vuole rinunciare alla propria sovranità, e degli industriali, che vedono nella guerra possibilità di arricchirsi economicamente. Costoro riescono a convincere il popolo attraverso il controllo dell'istruzione, della stampa, delle organizzazioni religiose (massa=strumento politico).
Com'è allora che la massa si lascia convincere così facilmente? Deve necessariamente essere a causa di un SENTIMENTO DI ODIO E DISTRUZIONE interno dell'animo umano, passione che emerge solo in situazioni particolari.
Vero nocciolo della questione: esiste allora la possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Il fisico si riferisce sia alle masse incolte sia agli intellettuali tanto facilmente coinvolti nel propagandare la guerra, e parla in generale dei conflitti che nascono non solo tra stati ma anche all'interno di uno stato stesso.
Chiede infine a Freud di esporre il problema della pace mondiale attraverso le sue recenti scoperte, così da partecipare nella ricerca di nuove vie d'azione.
FREUD, Settembre 1932
Il filosofo è inizialmente sorpreso dalla scelta di argomento di Einstein, e ancora di più dal rendersi conto di come effettivamente questa sia una questione che riguarda tutti, scienziati come filosofi come politici.
Inizia la sua risposta tracciando il rapporto nella storia tra diritto e forza (violenza)→legge del più forte, da sempre regolatrice dei conflitti tra uomini, in grado di determinare l'individuo dominante che o uccide o diventa padrone del vinto. Il diritto nasce dall'unione di molti (deboli), uniti per contrastare la predominazione di uno: unione=potenza della comunità, si esplica sempre attraverso la violenza. La comunità, che si deve mantenere una volta eliminato il singolo potente, si basa sui legami emotivi che tengono unito il gruppo, ed è amministrata da leggi. Ma anche all'interno di una comunità la pace è solo teorica (singoli che tentano di tornare allo stato iniziale di violenza, tentativi comunitari di ottenere diritti universali) e si finisce con il risolvere i conflitti in modo violento. Si sono infatti verificati conflitti continui nel corso della storia tra le popolazioni più diverse, che non hanno comunque mai dato vita a un unico impero pacifico.
Una PREVENZIONE SICURA DALLA GUERRA è possibile creando un'autorità centrale al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interesse, e assicurandole il potere che le spetta (cosa che non si è verificata con la Società delle Nazioni: non ha potere proprio e nessuno gliel'ha concesso).
Freud passa poi ad analizzare le PULSIONI UMANE, che possono essere solo di due tipi: Eros (che tende a conservare e a unire) e Thanatos (tende a distruggere e a uccidere). Esse sono parimente indispensabili e agiscono vincolate l'una all'altra, influenzandosi a vicenda. In questo modo, la passione scatenata dalla guerra non va a risvegliare solo gli impulsi distruttivi ma anche quelli erotici e ideali, e questo legame rende più facile il loro soddisfacimento. In particolare, thanatos è pulsione di morte che viene sfogata sia verso oggetti esterni, in modo distruttivo, sia all'interno dell'uomo, comportando una serie di patologie; è dunque impossibile poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Si può solo cercare di deviare l'aggressività umana al punto che non debba trovare espressione nella guerra.
La LOTTA ALLA GUERRA si può fare, indirettamente e lentamente:
• attraverso l'eros=legami emotivi contro la guerra: relazioni d'amore o identificazione (solidarietà identificative tra uomini, su cui si basa l'assetto della società)
• formando persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia
Ma PERCHE' CI INDIGNIAMO CONTRO LA GUERRA e non la prendiamo come una delle tante calamità della vita? Essa infatti è un processo naturale, quasi anche biologico. La ragione principale è che non possiamo fare a meno di farlo: siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo, per ragioni organiche; ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento con argomentazioni. Il percorso secolare di “incivilimento” (civilizzazione) della società umana ha portato al rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e all’interiorizzazione dell’aggressività. La guerra va contro l'atteggiamento psichico proposto dal processo civile ergo dobbiamo ribellarci contro essa, rifiutarla intellettualmente e affettivamente.
Forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.